C’era da aspettarselo! Già serpeggiava il risultato di tale verdetto tra gli addetti ai lavori nonchè tra gli osservatori internazionali, analizzando il pacchetto di norme pasticciate che erano stata redatte sotto la spinta dell’ala oltranzista della Lega, noncurante dei più basilari principi in materia di immigrazione e dei diritti umani vigenti. Così come in passato, anche questa volta con il suo prezioso lavoro di ermeneutica la Grand Chamber di Strasburgo, ha ristabilito la legalità sostanziale.

Il caso Hirsi e altri contro Italia, incardinato presso la Corte europea dei diritti dell’uomo, concerne la prima operazione di respingimento collettivo che ha avuto luogo il 6 maggio 2009, in prossimità delle coste italiane per la precisione 35 miglia a sud di Lampedusa,  quindi in “acque internazionali”.

Orbene, in tale data le autorità italiane hanno dapprima intercettato come da protocollo una delle tante carrette della speranza con a bordo circa 200 rifugiati delle più disparate nazionalità del corno d’Africa, somali ed eritrei, tra cui  molti bambini e donne in evidente stato di gravidanza.  In seguito però tali migranti sono stati  si presi a bordo da una imbarcazione italiana, ma respinti a Tripoli e riconsegnati, contro la loro volontà, alle autorità libiche.

La gravità dell’azione non sta sic et simpliciter nella opinabile e seppur criticabile ratio del respingimento, avendo gli Stati in conformità con la cornice legislativa europea ed internazionale, margini seppur risicati di discrezionalità nella scelta degli strumenti da adottare.  La ingiustificabilità e superficialità di tale azione va ricercata bensì nelle modalità con cui si è attuato tale respingimento: invero, il respingimento è avvenuto senza che i migranti intercettati fossero in primis identificati, ascoltati e/o preventivamente informati sulla loro reale destinazione, in palese violazione di principi e norme a carattere cogente in tutto il mondo.

Il contesto che ci troviamo ad affrontare, per un corretto inquadramento delle problematiche sottese e per la ricerca delle possibili strade percorribili, ci impone tuttavia di approfondire preliminarmente il concetto del refoulement e delle sue fonti: tale principio costituisce il caposaldo e il perno della protezione internazionale dei rifugiati, e si trova cristallizzato nell’art. 33 della Convenzione  di Ginevra del 1951, vincolante anche per gli Stati parte del Protocollo del 1967, e nello specifico sancisce che:Nessuno Stato contraente potrà espellere o respingere (“refouler”) – in nessun modo – un rifugiato verso le frontiere dei luoghi ove la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a causa della sua razza, religione, nazionalità, appartenenza ad una determinata categoria sociale o delle sue opinioni politiche”.

Dall’istruttoria condotta infatti emerge che i migranti credevano di essere diretti verso le coste italiane.  Dopo tale accadimento all’incirca 11 cittadini di nazionalità  somala, e 13 cittadini eritrei, sono stati individuati in Libia dal Consiglio italiano per i rifugiati, ed hanno così deciso di ricorrere per far valere le loro ragioni incardinando un ricorso contro l’Italia presso la CEDU, assistiti e coadiuvati dagli avvocati Anton Giulio Lana e Andrea Saccucci, dell’Unione forense per la tutela dei diritti umani.

Questa vicenda mette in luce  altresì a prescindere dalle implicazioni giuridiche, come la nostra nazione si trovi spesso schiacciata e sola, tra due aspetti della stessa questione non scindibili, il rispetto del principio del non refoulement, ovvero il divieto di respingimento dei migranti verso paesi dove possono subire trattamenti inumani e degradanti, e il contenimento e/o la sistemazione dell’enorme e crescente numero di persone provenienti dalle frontiere dei paesi del nord Africa.

In seguito, con  la sentenza del 23 febbraio 2012 resa in Grande Camera,  i giudici di Strasburgo hanno statuito all’unanimità che essendo stati i ricorrenti intercettati in mare dalle autorità italiane, erano pertanto sottoposti alla giurisdizione italiana, ai sensi e per gli effetti dell’articoli 1 della Convenzione. Tuttavia si è evidenziato, dall’ordito normativo nonchè dalle circostanze fattuali emerse nella ricostruzione dell’accadimento e cristallizzate nella pronuncia, una duplice violazione dell’articolo 3: i ricorrenti, poichè sono stati ricondotti contro la loro volontà in Libia, erano  materialmente esposti al rischio effettivo di subire maltrattamenti e di essere rimpatriati verso la Somalia e l’Eritrea, loro paesi d’origine, con i connessi pericoli per la loro vita e le ripercussioni socio-legislative.

Infine dal punto di vista procedurale si è accertata in merito alla condotta tenuta dalle Autorità italiane la violazione dell’articolo 4 del Protocollo n. 4 alla Convenzione, che vieta  in maniera espressa le “espulsioni collettive” nonché la violazione dell’articolo 13, rubricato “diritto ad un ricorso effettivo” combinato con gli articoli 3 della Convenzione e 4 del Protocollo n. 4.

L’art. 13 costituisce nello schema di protezioni della CEDU la “pietra angolare” del sistema, in quanto garantisce e in certi casi sollecita, l’esistenza nel diritto interno di ogni singolo stato aderente alla convenzione, di un ricorso che permetta di far valere i diritti e le libertà in essa contenuti e consacrati. Invero, tale norma non solo un carattere programmatico, bensì anche precettivo, dal momento che pretende per gli addebiti che si possano ritenere «difendibili» ai sensi della Convenzione e dei Protocolli, l’esistenza e la operatività di un ricorso interno che “abiliti” l’«istanza» nazionale a conoscere il contenuto dell’addebito e ad offrire un rimedio appropriato.

Gli Stati contraenti, tuttavia, pur beneficiando di un margine di discrezionalità nell’individuare i mezzi necessari per conformarsi alle obbligazioni che derivano da questa disposizione, hanno l’onere di rendere operativo tale meccanismo di difesa in concreto. 

Infatti, il ricorso deve essere « effettivo » in fatto come in diritto, ovvero il suo esercizio non deve essere ostacolato, in modo ingiustificato, da atti o omissioni delle autorità statali. In secondo luogo, l’« effettività» del ricorso, è altresì sganciata dall’esito favorevole per il ricorrente. Infine, l’insieme dei rimedi previsti dal diritto interno sono rispondenti alle condizioni stabilite dall’art. 13, anche se alcuno di essi, isolatamente considerato, non soddisfa interamente siffatte condizioni (arrêt Kudła, § 157).

L’art. 13 riproduce il “principio di sussidiarietà” che informa il sistema europeo di protezione dei diritti dell’uomo, e deve – in combinato disposto con l’art. 35 -applicarsi con una certa flessibilità. La finalità dell’art. 35 è quella di offrire agli Stati contraenti l’occasione di prevenire o di rimediare alla violazioni prima che siffatte violazioni siano fatte valere dinanzi agli organi della Convenzione (voir, par exemple, les arrêts Hentrich c. France du 22 septembre 1994, série A n° 296‑A, p. 18, § 33 ; Remli c. France du 23 avril 1996, Recueil 1996-II, p. 571, § 33).

Gli Stati non rispondono in tale meccanismo direttamente davanti ad un organismo internazionale  del loro agere, in quanto hanno la possibilità di rimediare nel loro ordinamento interno. Questa regola  presenta strette affinità operativa con l’art. 13, postulando che l’ordinamento interno offra un ricorso effettivo per la violazione riscontrata. 

Nondimeno, l’art. 35 della Convenzione prescrive soltanto l’esaurimento di ricorsi disponibili e adeguati. Siffatti ricorsi devono offrire un grado sufficiente di certezza non soltanto in teoria ma anche in pratica, altrimenti mancano dell’effettività e della accessibilità volute; incombe sullo Stato dimostrare che queste esigenze sono soddisfatte.

Nella vicenda in esame a pesare come un macigno non è solo la mancata predisposizione di rimedi interni ex art.13, ma sopratutto la violazione della disposizione più carica di significati sociali, quella che sanziona i trattamenti inumani e degradanti che i fatti descritti hanno messo in luce.

Fatte queste dovute considerazioni e approfondita la problematica sotto il profilo procedurale, alla luce delle norme della Convenzione dei diritti dell’uomo, posso affermare che ancora una volta in seno alla Corte di Strasburgo sono prevalsi i principi universali e informatori di quei diritti che costituiscono il “common core” del vivere civile, ma che troppo  restano spesso abbandonati a giochi di real-politik o ad incomprensibili equilibri geopolitici. Per quanto concerne invece il legislatore italiano, auspico che le bacchettate servano da monito per il futuro. Quando si pongono norme e prescrizioni su delicati problemi gli slanci populisiti e i tornaconti elettorali devono essere sterilizzati.


Ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati, ha diritto a u


Il nostro assetto democratico, sistema “politico” per definizione, mutevole e vulnerabile al minimo cambiamento economico-sociale, oggi come già in passato, anche se con sfumature diverse, è alle prese con un pressante problema, non solo  di carattere contingente.

La problematica altresì è di importanza vitale, poichè dalla risposta che si saprà dare ad essa dipenderà la qualità del rapporto governanti-cittadini, sempre più sbiadito e ingessato da un politichese autocelebrativo, avulso dai reali drammi e problemi materiali che la classe politica sarebbe chiamata a risolvere. Si avverte pertanto come improcastinabile il bisogno di rivitalizzare i canali di rappresentanza con nuova linfa, e quindi riconnettere la rappresentanza, affidata alla classe politica sic et simpliciter, alla partecipazione, quella dei cittadini, non episodica e legata a calcoli, promesse e scadenze elettorali, ma distribuita sui vari livelli, economico, familiare, istituzionale e scolastico nell’arco di 365 giorni.

Le problematiche descritte non sono meccaniche e meramente contingenti, nè risolvibili solo con una revironment di ingegneria istituzionale o con un diverso metodo di procacciare voti e alimentare il consenso nell’arco del mandato elettorale. Richiamando l’illuminante frase del principe Salina nel Gattopardo «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi», emerge chiaramente che trucchi di tale genere non possono più funzionare nell’odierno tessuto sociale sfaldato e anestetizzato dalla sfiducia.

Nella quotidianeità cittadina, come nello scenario nazionale, è ancora più necessario lo sviluppo e la maturazione di una coscienza civica nuova: è utile infatti cercare di convogliare quel potere ascendente che permea varie “sfere della società civile” troppo spesso rimasto senza una voce, o  creare una cinghia di trasmissione delle sue istanze o idee, come lucidamente Bobbio preconizzava in uno dei suoi scritti.

Canalizzare la grande spinta dal basso in nuove forme di governance è stata dapprima una delle motivazioni-sfide che hanno dato vita al movimento di patto democratico; in seguito è divenuto un  grande  obiettivo a medio-lungo termine che il risultato elettorale e l’entusiasmo scaturitone hanno concretizzato e rinvigorito.

Insomma rompere con un modo di fare politica tradizionale, che seppur fosse rafforzato e premiato dai grandi numeri, vedrebbe però notevolmente ridimensionata la qualità della democrazia rappresentativa, oscillante tra il disincanto e la sfiducia degli elettori. La retorica dell'”empowerment”, che sta ad indicare la necessità di coinvolgere la popolazione nei processi decisionali dopo aver ascoltato i suoi bisogni è il criterio guida di tale movimento. 

La predisposizione di un “think tank” seppur embrionale, ovvero uno spazio aperto dove ognuno può contribuire con le proprie idee, e la creazione di macro-aree tematiche, sono altresì gli strumenti per leggere, monitorare e focalizzare i problemi in una nuova ottica. Contribuire a creare cittadini critici, informati, ma anche partecipi e dialoganti, in modo da combinare i virtuosismi presenti nella società civile e la capacità e voglia di  bene amministrare degli iscritti e simpatizzanti, l’approdo e il traguardo da raggiungere. 

Tanti piccoli alberi sono stati piantati, molti semi sparsi, aspettiamo che cresca una rigogliosa e forte foresta.


In questi ultimi decenni abbiamo assistito ad un fenomeno rivoluzionario ed inarrestabile, al quale ha contribuito in maniera determinate l’emersione e l’affermarsi del social networking, da facebook a twitter, che da un lato hanno nel bene e nel male riscritto la grammatica della politica, dall’altro, hanno ampliato le forme e le modalità di partecipazione. Questo fenomeno, per certi versi silenzioso ma sostanziale consiste in un ampliamento del ruolo di “cane da guardia della democrazia”, prima esclusivo appannaggio della stampa.

Ma ci sono solo lati positivi o anche ombre nel dilatarsi di questo ruolo? Un primo dato, senza ombra di smentite e che ogni qualvolta si incrementi la partecipazione verso il controllo della cosa pubblica, possiamo essere soddisfatti in quanto gli anticorpi democratici hanno funzionato. Ripercorrendo a ritroso il cammino l’inizio di questa voglia di controllo e partecipazione ha la sua forma embrionale nell’agorà greco, nella piazza, come luogo fisico e anche ideale, nel quale passioni e slanci si coniugavano con le problematiche e anche con le possibili soluzioni, in una interazione continua nella quale la trasparenza e la partecipazione erano la garanzia essenziale.

Era il confronto tra gli stessi cittadini a garantire un controllo, fatto di azioni e reazioni, capace di mantenere elevato il livello di attenzione. Ed è sempre nella piazza anche in epoca romana, con il meccanismo del plebiscito, seppur con le sue criticità strutturali, che si cristallizzava il momento decisionale ma anche politico di bilanciamento e controllo delle decisioni prese con legge in senso proprio. In seguito, tale modello ha subito un mutamento, stante l’impossibilità sotto la crescita della popolazione a garantire una partecipazione effettiva al processo decisionale, scindendo il demos, il popolo, la partecipazione, e il kratos, il potere di decidere, e quindi momento decisionale e il momento del controllo, il cui approdo sarebbe stato la nascita delle forme di governo, il cui paradigma  migliore è rappresentato dal modello parlamentare con l’affermarsi dei sistemi elettorali capaci di garantire quella reductio ad unum della collettività tramite il voto.

Orbene, in tale cornice un ruolo sempre maggiore è stato occupato dalla stampa, vero guardiano e strenue difensore degli assetti e dei diritti dei cittadini, divenendo uno dei fondamenti essenziali di una società sia dal punto di vista funzionale per le informazioni o le idee che è stata capace di veicolare, ma altresì proprio e specialmente per quella attitudine ad essere per sua natura sganciata dai meccanismi di decisione che le permettono di abbaiare forte e anche di mordere ogniqualvota ad essere minacciati sono fondamentali diritti della società.

Questo è il ruolo  imprescindibile che la stampa ha saputo svolgere, e che deve continuare a svolgere, in una società democratica, secondo una formula “cane da guardia” che è stata coniata ed utilizzata, con lessico anglosassone, dalla Corte europea dei diritti dell’uomo -CEDU- in svariate pronuce.

Ma tale ruolo, con le innovazioni tecnologiche non si è fossilizzato in uno schema rigido, anzi, ha assunto connotazioni e sfumature nuove, ampliando gli attori che contribuiscono a svolgere tale munus. Ne è una riprova l’attenzione per certi versi spasmodica riservata nelle tornate elettorali ai social network, nella loro veste di “influencer” dell’esito elettorale ma anche  di “guardiano”,  per la loro capacità di sbeffeggiare e rivelare le bugie e i trucchi spesso propinati ad hoc dalla classe politica. Apripista di questa stagione è stato fin dal 2003 Alastair Campbell, spin doctor del governo Blair, che intuì che a dettare le priorità dell’agenda politica non erano più la tradizionale carta stampata e le tv, e secondariamente che a decidere gli equilibri dell’esito elettorale e a RI-equilibrare e monitorare i comportamenti dei politici potesse contribuire in  buona misura anche il fenomeno dei Social Media.

Poi segui l’ascesa trionfale del Presidente degli USA Barack Obama, alla cui vittoria ha contribuito notevolmente il social faceebook, che però ora si vede bacchettato quasi per contrappasso, proprio dai suoi elettori vigili controllori e critici spietati delle sue decisioni. Se è vero che tale fenomeno a contribuito a implementare il “crowdsourcing”, ovvero la metodologia di collaborazione con la quale si coglie e stimola la collaborazione dalla rete, anche mediante nuove forme di controllo, ci si interroga però sulla qualità di tale controllo.

Non può nascondersi la circostanza che la volatilità e mutevolezza delle opinioni, il ciarliero twittare, la leggerezza e superficialità con i quali a volte si esprimono vere e proprie sentenze, il loro livore e la contraddittorietà logica delle argomentazioni, rendono il social networking una sorta di “nightclub anonimo e caotico”, come ci testimonia Gregor Poynton, direttore della web agency che ha ideato la campagna elettorale di Obama o peggio un’arena in cui sfiancare e demonizzare l’altro in virtù di un pretestuoso animus vigilandi.

Il ruolo di “cane da guardia della democrazia”, richiede non solo vivacità e vigore, ma anche e sopratutto equilibrio, trasparenza, e neutralità rispetto alle problematiche e ai valori che si devono difendere o sostenere.

Per queste ragioni è auspicabile che tale ruolo di vigile e rigido controllore non sia di esclusivo appannaggio nè della stampa nè dei social network, e che entrambi in un mutuo dialogo, riconoscimento e collaborazione snidino ed espungano quegli elementi di incertezza e confusione che toglierebbero credibilità al “sistema di controllo” nel suo insieme. Questo perchè c’è bisogno di un vero e proprio “sistema”, del quale sicuramente potranno fare parte i social network e la nuova ed emergente social politik.

Lets twitt…


Negli ultimi quindici anni, il procedimento di maturazione e formazione delle scelte pubbliche ha subito un vigoroso ed inarrestabile mutamento, sotto la duplice spinta di due fattori concomitanti e complementari: da un lato i naturali sviluppi storico-sociali, dall’altro l’affermarsi del ruolo delle tecnologie nella vita  pubblica e/o politica e quindi l’emergere della wikicrazia.

Da questa premessa si evince quindi che l’interazione classica dei componenti del famoso quadrato decisionale – P.A, opinione pubblica, gruppi di intermediazione, decisione politica – da cui promana la decisione in materia pubblica non è più unidirezionale, come le fasi che la precedono, ora arricchite da nuovi attori e modalità di tessitura dell’ordito decisionale

Si registra pertanto un ridimensionamento netto non del ruolo ma del peso della mediazione tecnica e politica tra le varie istanze dei gruppi di interesse, non più esclusivo filtro e concertatore di interessi contrapposti e spesso divergenti, in quanto tale funzione è erosa dall’affermarsi di corpi intermedi spesso non istituzionalizzati quali movimenti o semplici think tank, a cui il legislatore deve comunque dare risposte.

Il processo decisionale e  per tale via anche l’iter dei lavori, devono quindi alla luce di tali mutamenti confrontarsi con svariati interlocutori, dai media, agli influencer, al popolo di internet, alle organizzazioni non governative, agli enti locali, nonchè alle lobbyies.

L’arena decisionale non solo si amplia, ma diventa più complessa, competitiva. Una prima causa di tale evoluzione è rappresentata dalla “disintermediazione” della società, che ha causato in primis la moltiplicazione degli attori, sia dal punto di vista dei gruppi di interesse che chiedono di partecipare alla decisione, sia per quanto riguarda quelle maggioranze silenziose che svolgono un ruolo di guardiano mediante il controllo,  ma anche con il semplice suggerimento e la divulgazione delle informazioni.

Emerge così in maniera evidente la crisi di influenza del gruppo di interesse inteso in senso classico rispetto al passato, nonchè l’erosione e il ridimensionamento di del ruolo di mediatore e filtro delle istanze prima esclusivo appannaggio della politica. In questo spazio quindi si sono inserite organizzazioni o gruppi che hanno svolto attivamente un ruolo di difesa e in certi casi di promozione di interessi, anche ridisegnadone il perimetro: esse sono  ascrivibili e classificabili principalmente in due categorie, l’advocacy e il lobbying.

L’attività di “advocacy” consiste nello sviluppare una serie, coordinata e strategicamente funzionale di azioni di comunicazione per promuovere, consolidare o difendere un interesse – istituzionalmente rilevante–di un’organizzazione complessa. Garantendo così presso tutti i pubblici poteri di riferimento, direttamente o attraverso altri soggetti attivi del processo, un flusso informativo costante, congruente e favorevole al gruppo di interesse, si riesce ad accrescere la c.d. issue salience e ad aumentare la propria capacità di incidere sulle decisioni pubbliche.

Per «advocacy»  nello specifico si intendono indicare tutte quelle le organizzazioni che operano per la tutela e la promozione dei diritti, mutuando un vocabolo inglese – che letteralmente può essere tradotto con avvocatura, appoggio, patrocinio, arringa; il motivo della scelta di tale termine si giustifica con l’assenza di un sostantivo equivalente che indicasse l’insieme di azioni con cui un soggetto collettivo sostiene attivamente e fattivamente un interesse, in ambito giudiziario ma anche politico. Tuttavia, l’elemento più importante che lo differenzia nettamente dall’attività di lobbying sta non solo nella mission, con cui presenta punti di contatto, ma sopratutto nelle ricadute pratiche, posto che l’agere di soggetti collettivi, porta vantaggio anche a terzi che non necessariamente ne fanno parte.

Per quanto attiene alle modalità, l’advocacy si snoda con azioni di difesa e di promozione dei diritti collettivi, con maggior propensione per le fasce più deboli della popolazione, tramite il lavoro di associazioni e organizzazioni non governative (ONG).  Ne è una riprova di tale attitudine la circostanza squisitamente lessicale che gli spagnoli traducono il termine advocacy con incidencia o incidencia política,  sottolineando quindi la capacità di incidere sulla concreta attuazione delle politiche nazionali e anche internazionali , sia con l’esperimento di azioni a carattere preventivo – evitando le violazioni della legge e dei diritti – sia a carattere  reattivo-garantendo il rispetto dei diritti di coloro che ne sono privati.

Orbene, sulla scorta di quanto premesso può senza ombra di dubbio affermarsi che la pratica dell’advocacy si sostanzia in un concreto e per certi versi necessario corollario di cittadinanza attiva e responsabile, poichè permette a quei gruppi che subiscono o lamentano ingiustizia ed emarginazione di accedere al dibattito pubblico e porre in luce nei circuiti decisionali, tematiche ed interessi spesso relegati ai margini del dibattito politico.

Tuttavia, parallelamente a tale nobile attività si è evoluta ed affinata anche l’attività indirizzata al cambiamento politico,  mediante la pressione e l’orientamento delle decisioni degli attori istituzioanli, cioè  il lobbying; con tale vocabolo si indica l’azione sostenuta da determinati gruppi di interesse o pressione al fine di influenzare, contrastare o sostenere provvedimenti legislativi e normativi o specifiche politiche pubbliche (cfr TINTORI C., «Lobby», in Aggiornamenti Sociali, 4 [2009] 303-306). 

Ma tali termini anche se spesso utilizzati come sinonimi, rappresentano due fenomeni con profonde differenze pratiche e di fondo: invero, l’advocacy si sostanzia nella promozione e difesa di principi, mentre la mission del lobbying sta nell’esercitare pressione per promuovere e difendere interessi, prevalentemente di natura economica. Ragion per cui, l’elemento dirimente dell’azione di advocacy  da quella di Lobbying è assai spesso  nella disinteressata difesa di terzi esterni al soggetto promotore.

Un altro elemento di distinzione discende dal fatto che l’attività di lobbying è rivolta direttamente ai detentori del potere (membri del Governo, parlamentari, funzionari e dirigenti pubblici) e si propone di influenzarne le decisioni. L’advocacy, invece, ha uno spettro di azione più ampio e comprende l’insieme delle attività che permettono la difesa e la promozione di valori e diritti, con una spiccata attenzione per la sensibilizzazione e la mobilitazione dell’opinione pubblica, cioè per il mutamento culturale e la crescita della coscienza civile e sociale.  

In questo quadro si registra come spesso le evoluzioni sociali abbiano preceduto quelle istituzionali. All’emergere ed affermarsi di tali fenomeni purtroppo tranne che in alcuni casi, si sconta il ritardo ordinamentale a recepire tali mutamenti e a provvedere a ridisegnare l’architettura istituzionale. Purtroppo non governare tale fenomeno potrebbe avere due effetti deleteri per la credibilità del sistema sociale e per il corretto funzionamento del sistema democratico, per due ragioni: il primo rischio è rappresentato dal fatto che per accontentare sic et sempliciter tali gruppi di pressione si prendano decisioni si di matrice pubblica, ma con carattere e contenuto settoriale e particolaristico che cozzano con una mediazione e bilanciamento di interessi contrapposti che costituisce il sale della democrazia e il compito assegnato dal contratto sociale allo Stato. In secondo luogo, il rischio opposto, è quello di rinchiudersi nella torre di avorio da parte del potere politico, non ascoltando o incanalando tali attori, con conseguente frattura e sfiducia con la società.  

La metamorfosi è ormai in atto, il fenomeno è in espansione ed emerge icto oculi l’incapacità dell’attuale processo decisionale pubblico, lento, farraginoso, a tratti schizzofrenico, come le vicende economiche di questi mesi hanno messo a nudo, a prendere decisioni rapide ed efficaci; in sintesi si mostra inadatto a recepire e rappresentare le molteplici istanze che emergono da un substrato sociale sempre più variegato e complesso e a tradurle in decisioni concretamente efficaci. Queste sono quindi le incognite di un’equazione da cui dipenderà forse la qualità del futuro ordinamento sociale.


La virtù del coraggio e del cambiamento oltre ogni lobbies di potere, lo slancio ideale che aveva animato la corsa alla casa bianca sembrano elementi evaporati o tuttalpiù sbiaditi nei programmi di governo del presidente americano, che aveva fatto sognare e dato speranza a milioni di americani e a miliardi di persone in tutto il mondo.

Complice anche la crisi economica e il fuoco di sbarramento incrociato della destra repubblicana e delle varie lobbies, i famigerati limiti alle emissioni nell’atmosfera che dovevano essere il fulcro della tanto cavalcata e annunciata “rivoluzione verde” al momento subiscono un rallentamento: nei programmi, oltre alla  finalità di preservare l’ecosistema, dovevano anche contribuire ad incentivare e rigenerare la vecchia economia verso un’approdo più “green”, ma tuttavia sono stati temporaneamente accantonati alla data del 2013.

Ma cosa è in realtà l’inquinamento della qualità dell’aria? 

L’inquinamento atmosferico in sostanza è la presenza nell’atmosfera di sostanze i cui effetti sono misurabili sull’essere umano,  oltre che sugli animali e sulla natura; il grado di presenza di tali sostanze nell’aria è normalmente, ovvero in assenza di immissioni causate dall’uomo, ad una concentrazione inferiore o inesistente.

Gli inquinanti sono classificati in due categorie principali: la prima, di origine antropica, ovvero prodotti dall’uomo, e quelli naturali.

L’inquinamento derivato dall’utilizzo di tali sostanze negli ambienti aperti viene definito esterno (o outdoor), mentre l’inquinamento negli spazi chiusi, es. gli edifici, è catalogato come interno o indoor. La qualità dell’aria negli ambienti confinati è definita come Indoor Air Quality.

Orbene, allo stato attuale della ricerca e della scienza, sono stati catalogate circa 3.000 sostanze contaminanti dell’aria, in maggioranza derivanti dall’attività umane mediante processi industriali, oltre che a causa dei mezzi di trasporto.

Le modalità di produzione dei vari inquinanti e la loro immissione nell’atmosfera sono variegate, ragion per cui oltre alla difficoltà di monitorarle, diventa estremamente difficoltoso prevederne le ricadute e le possibili soluzioni. Basti pensare che l’immissione di esse provoca una serie di malattie che vanno dalla semplice asma a complicazioni cardiocircolatorie.

Purtroppo, la notizia, sulla scià di questa breve ma necessaria digressione appare preoccupante! Non è solo un mero chiacchiericcio giornalistico, in quanto è la stessa EPA – ENVIRONMENTAL PROTECTION AGENCY, l’ente per la protezione ambientale, a vedere smentite e posticipate le nuove regole in tema di limiti di emissione.

L’intento riformatore sembra solo momentaneamente fermo a causa della lentezza con cui si dovrebbe operare in primis nel settore legislativo per ridurre e semplificare la selva legislativa che graverebbe come un ulteriore macigno sulle imprese; ma sopratutto per la scarsa propensione del sistema imprese americano, in netto ritardo sul fronte innovazione, per la circostanza non secondaria che se venissero approvati i famigerati limiti in materia di emissione rebus sic stantibus, si provocherebbe un’emmorraggia occupazionale ulteriore e una corsa alla delocalizzazione verso quei paesi in cui tutto è lecito e permesso in materia ambientale.

Eppure, è proprio questo il momento che richiederebbe coraggio ed incisività nel voltare pagina con il passato e di allinearsi a nazioni che su tale fronte sono ormai in vantaggio. Ma la preoccupazione di deprimere un’economia già ostaggio dei suoi stessi errori e fantasmi, rischia di bloccare e forse arenare, sotto la scusa della necessità di salvaguardare l’occupazione un radicale ripensamento del modo di produrre oltre che di un rimodulamento degli stili di vita, necessari quanto più improcastinabili nel declino del gigante americano.

Purtroppo, come se non bastasse tale decisione rischia di provocare anche un terremoto tra tutti quei sostenitori che erano stati la linfa della sua trionfante cavalcata, che avevano risvegliato milioni di sfiduciati americani dal torpore e dall’astensionismo elettorale. Si sentono traditi, utilizzati, e per il momento il loro sfogo si ferma a dichiarazioni.

Ma se non vedessero mutare i presupposti dell’azione di governo, quelle migliaia di cause ambientaliste ritirate in campagna elettorale (si ricordi John Walke a capo del Natural Resource Defense Council), potrebbero ritrovare vigore, e decretare la sicura non rielezione del profeta venuto da Chicago.

La luna di miele sta giungendo alla fine? Il banco di prova, sarà quasi certamente la decisione sulla costruzione del super-oleodotto che dovrebbe garantire l’approvigionamento di petrolio dal Canada fino al golfo del Messico. Se vincerà il si, le lobby avranno vinto la partita più difficile, con un ritorno non solo economico.  Ad essere sconfitto sarà un movimento trasversale globale, e una prospettiva di vita.

La qualità dell’aria e il sogno di un mondo più pulito naufragheranno forse per sempre..

Resisti Barack!