Nuovo ko per l’Italia in materia di immigrazione: stop alle espulsioni collettive!
febbraio 23, 2012
C’era da aspettarselo! Già serpeggiava il risultato di tale verdetto tra gli addetti ai lavori nonchè tra gli osservatori internazionali, analizzando il pacchetto di norme pasticciate che erano stata redatte sotto la spinta dell’ala oltranzista della Lega, noncurante dei più basilari principi in materia di immigrazione e dei diritti umani vigenti. Così come in passato, anche questa volta con il suo prezioso lavoro di ermeneutica la Grand Chamber di Strasburgo, ha ristabilito la legalità sostanziale.
Il caso Hirsi e altri contro Italia, incardinato presso la Corte europea dei diritti dell’uomo, concerne la prima operazione di respingimento collettivo che ha avuto luogo il 6 maggio 2009, in prossimità delle coste italiane per la precisione 35 miglia a sud di Lampedusa, quindi in “acque internazionali”.
Orbene, in tale data le autorità italiane hanno dapprima intercettato come da protocollo una delle tante carrette della speranza con a bordo circa 200 rifugiati delle più disparate nazionalità del corno d’Africa, somali ed eritrei, tra cui molti bambini e donne in evidente stato di gravidanza. In seguito però tali migranti sono stati si presi a bordo da una imbarcazione italiana, ma respinti a Tripoli e riconsegnati, contro la loro volontà, alle autorità libiche.
La gravità dell’azione non sta sic et simpliciter nella opinabile e seppur criticabile ratio del respingimento, avendo gli Stati in conformità con la cornice legislativa europea ed internazionale, margini seppur risicati di discrezionalità nella scelta degli strumenti da adottare. La ingiustificabilità e superficialità di tale azione va ricercata bensì nelle modalità con cui si è attuato tale respingimento: invero, il respingimento è avvenuto senza che i migranti intercettati fossero in primis identificati, ascoltati e/o preventivamente informati sulla loro reale destinazione, in palese violazione di principi e norme a carattere cogente in tutto il mondo.
Il contesto che ci troviamo ad affrontare, per un corretto inquadramento delle problematiche sottese e per la ricerca delle possibili strade percorribili, ci impone tuttavia di approfondire preliminarmente il concetto del refoulement e delle sue fonti: tale principio costituisce il caposaldo e il perno della protezione internazionale dei rifugiati, e si trova cristallizzato nell’art. 33 della Convenzione di Ginevra del 1951, vincolante anche per gli Stati parte del Protocollo del 1967, e nello specifico sancisce che:“Nessuno Stato contraente potrà espellere o respingere (“refouler”) – in nessun modo – un rifugiato verso le frontiere dei luoghi ove la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a causa della sua razza, religione, nazionalità, appartenenza ad una determinata categoria sociale o delle sue opinioni politiche”.
Dall’istruttoria condotta infatti emerge che i migranti credevano di essere diretti verso le coste italiane. Dopo tale accadimento all’incirca 11 cittadini di nazionalità somala, e 13 cittadini eritrei, sono stati individuati in Libia dal Consiglio italiano per i rifugiati, ed hanno così deciso di ricorrere per far valere le loro ragioni incardinando un ricorso contro l’Italia presso la CEDU, assistiti e coadiuvati dagli avvocati Anton Giulio Lana e Andrea Saccucci, dell’Unione forense per la tutela dei diritti umani.
Questa vicenda mette in luce altresì a prescindere dalle implicazioni giuridiche, come la nostra nazione si trovi spesso schiacciata e sola, tra due aspetti della stessa questione non scindibili, il rispetto del principio del non refoulement, ovvero il divieto di respingimento dei migranti verso paesi dove possono subire trattamenti inumani e degradanti, e il contenimento e/o la sistemazione dell’enorme e crescente numero di persone provenienti dalle frontiere dei paesi del nord Africa.
In seguito, con la sentenza del 23 febbraio 2012 resa in Grande Camera, i giudici di Strasburgo hanno statuito all’unanimità che essendo stati i ricorrenti intercettati in mare dalle autorità italiane, erano pertanto sottoposti alla giurisdizione italiana, ai sensi e per gli effetti dell’articoli 1 della Convenzione. Tuttavia si è evidenziato, dall’ordito normativo nonchè dalle circostanze fattuali emerse nella ricostruzione dell’accadimento e cristallizzate nella pronuncia, una duplice violazione dell’articolo 3: i ricorrenti, poichè sono stati ricondotti contro la loro volontà in Libia, erano materialmente esposti al rischio effettivo di subire maltrattamenti e di essere rimpatriati verso la Somalia e l’Eritrea, loro paesi d’origine, con i connessi pericoli per la loro vita e le ripercussioni socio-legislative.
Infine dal punto di vista procedurale si è accertata in merito alla condotta tenuta dalle Autorità italiane la violazione dell’articolo 4 del Protocollo n. 4 alla Convenzione, che vieta in maniera espressa le “espulsioni collettive” nonché la violazione dell’articolo 13, rubricato “diritto ad un ricorso effettivo” combinato con gli articoli 3 della Convenzione e 4 del Protocollo n. 4.
L’art. 13 costituisce nello schema di protezioni della CEDU la “pietra angolare” del sistema, in quanto garantisce e in certi casi sollecita, l’esistenza nel diritto interno di ogni singolo stato aderente alla convenzione, di un ricorso che permetta di far valere i diritti e le libertà in essa contenuti e consacrati. Invero, tale norma non solo un carattere programmatico, bensì anche precettivo, dal momento che pretende per gli addebiti che si possano ritenere «difendibili» ai sensi della Convenzione e dei Protocolli, l’esistenza e la operatività di un ricorso interno che “abiliti” l’«istanza» nazionale a conoscere il contenuto dell’addebito e ad offrire un rimedio appropriato.
Gli Stati contraenti, tuttavia, pur beneficiando di un margine di discrezionalità nell’individuare i mezzi necessari per conformarsi alle obbligazioni che derivano da questa disposizione, hanno l’onere di rendere operativo tale meccanismo di difesa in concreto.
Infatti, il ricorso deve essere « effettivo » in fatto come in diritto, ovvero il suo esercizio non deve essere ostacolato, in modo ingiustificato, da atti o omissioni delle autorità statali. In secondo luogo, l’« effettività» del ricorso, è altresì sganciata dall’esito favorevole per il ricorrente. Infine, l’insieme dei rimedi previsti dal diritto interno sono rispondenti alle condizioni stabilite dall’art. 13, anche se alcuno di essi, isolatamente considerato, non soddisfa interamente siffatte condizioni (arrêt Kudła, § 157).
L’art. 13 riproduce il “principio di sussidiarietà” che informa il sistema europeo di protezione dei diritti dell’uomo, e deve – in combinato disposto con l’art. 35 -applicarsi con una certa flessibilità. La finalità dell’art. 35 è quella di offrire agli Stati contraenti l’occasione di prevenire o di rimediare alla violazioni prima che siffatte violazioni siano fatte valere dinanzi agli organi della Convenzione (voir, par exemple, les arrêts Hentrich c. France du 22 septembre 1994, série A n° 296‑A, p. 18, § 33 ; Remli c. France du 23 avril 1996, Recueil 1996-II, p. 571, § 33).
Gli Stati non rispondono in tale meccanismo direttamente davanti ad un organismo internazionale del loro agere, in quanto hanno la possibilità di rimediare nel loro ordinamento interno. Questa regola presenta strette affinità operativa con l’art. 13, postulando che l’ordinamento interno offra un ricorso effettivo per la violazione riscontrata.
Nondimeno, l’art. 35 della Convenzione prescrive soltanto l’esaurimento di ricorsi disponibili e adeguati. Siffatti ricorsi devono offrire un grado sufficiente di certezza non soltanto in teoria ma anche in pratica, altrimenti mancano dell’effettività e della accessibilità volute; incombe sullo Stato dimostrare che queste esigenze sono soddisfatte.
Nella vicenda in esame a pesare come un macigno non è solo la mancata predisposizione di rimedi interni ex art.13, ma sopratutto la violazione della disposizione più carica di significati sociali, quella che sanziona i trattamenti inumani e degradanti che i fatti descritti hanno messo in luce.
Fatte queste dovute considerazioni e approfondita la problematica sotto il profilo procedurale, alla luce delle norme della Convenzione dei diritti dell’uomo, posso affermare che ancora una volta in seno alla Corte di Strasburgo sono prevalsi i principi universali e informatori di quei diritti che costituiscono il “common core” del vivere civile, ma che troppo restano spesso abbandonati a giochi di real-politik o ad incomprensibili equilibri geopolitici. Per quanto concerne invece il legislatore italiano, auspico che le bacchettate servano da monito per il futuro. Quando si pongono norme e prescrizioni su delicati problemi gli slanci populisiti e i tornaconti elettorali devono essere sterilizzati.
Ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati, ha diritto a u
Partiti,movimenti politici e sfiducia dei cittadini: Che fare?
febbraio 3, 2012
Il nostro assetto democratico, sistema “politico” per definizione, mutevole e vulnerabile al minimo cambiamento economico-sociale, oggi come già in passato, anche se con sfumature diverse, è alle prese con un pressante problema, non solo di carattere contingente.
La problematica altresì è di importanza vitale, poichè dalla risposta che si saprà dare ad essa dipenderà la qualità del rapporto governanti-cittadini, sempre più sbiadito e ingessato da un politichese autocelebrativo, avulso dai reali drammi e problemi materiali che la classe politica sarebbe chiamata a risolvere. Si avverte pertanto come improcastinabile il bisogno di rivitalizzare i canali di rappresentanza con nuova linfa, e quindi riconnettere la rappresentanza, affidata alla classe politica sic et simpliciter, alla partecipazione, quella dei cittadini, non episodica e legata a calcoli, promesse e scadenze elettorali, ma distribuita sui vari livelli, economico, familiare, istituzionale e scolastico nell’arco di 365 giorni.
Le problematiche descritte non sono meccaniche e meramente contingenti, nè risolvibili solo con una revironment di ingegneria istituzionale o con un diverso metodo di procacciare voti e alimentare il consenso nell’arco del mandato elettorale. Richiamando l’illuminante frase del principe Salina nel Gattopardo «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi», emerge chiaramente che trucchi di tale genere non possono più funzionare nell’odierno tessuto sociale sfaldato e anestetizzato dalla sfiducia.
Nella quotidianeità cittadina, come nello scenario nazionale, è ancora più necessario lo sviluppo e la maturazione di una coscienza civica nuova: è utile infatti cercare di convogliare quel potere ascendente che permea varie “sfere della società civile” troppo spesso rimasto senza una voce, o creare una cinghia di trasmissione delle sue istanze o idee, come lucidamente Bobbio preconizzava in uno dei suoi scritti.
Canalizzare la grande spinta dal basso in nuove forme di governance è stata dapprima una delle motivazioni-sfide che hanno dato vita al movimento di patto democratico; in seguito è divenuto un grande obiettivo a medio-lungo termine che il risultato elettorale e l’entusiasmo scaturitone hanno concretizzato e rinvigorito.
Insomma rompere con un modo di fare politica tradizionale, che seppur fosse rafforzato e premiato dai grandi numeri, vedrebbe però notevolmente ridimensionata la qualità della democrazia rappresentativa, oscillante tra il disincanto e la sfiducia degli elettori. La retorica dell'”empowerment”, che sta ad indicare la necessità di coinvolgere la popolazione nei processi decisionali dopo aver ascoltato i suoi bisogni è il criterio guida di tale movimento.
La predisposizione di un “think tank” seppur embrionale, ovvero uno spazio aperto dove ognuno può contribuire con le proprie idee, e la creazione di macro-aree tematiche, sono altresì gli strumenti per leggere, monitorare e focalizzare i problemi in una nuova ottica. Contribuire a creare cittadini critici, informati, ma anche partecipi e dialoganti, in modo da combinare i virtuosismi presenti nella società civile e la capacità e voglia di bene amministrare degli iscritti e simpatizzanti, l’approdo e il traguardo da raggiungere.
Tanti piccoli alberi sono stati piantati, molti semi sparsi, aspettiamo che cresca una rigogliosa e forte foresta.
La virtù del coraggio e del cambiamento oltre ogni lobbies di potere, lo slancio ideale che aveva animato la corsa alla casa bianca sembrano elementi evaporati o tuttalpiù sbiaditi nei programmi di governo del presidente americano, che aveva fatto sognare e dato speranza a milioni di americani e a miliardi di persone in tutto il mondo.
Complice anche la crisi economica e il fuoco di sbarramento incrociato della destra repubblicana e delle varie lobbies, i famigerati limiti alle emissioni nell’atmosfera che dovevano essere il fulcro della tanto cavalcata e annunciata “rivoluzione verde” al momento subiscono un rallentamento: nei programmi, oltre alla finalità di preservare l’ecosistema, dovevano anche contribuire ad incentivare e rigenerare la vecchia economia verso un’approdo più “green”, ma tuttavia sono stati temporaneamente accantonati alla data del 2013.
Ma cosa è in realtà l’inquinamento della qualità dell’aria?
L’inquinamento atmosferico in sostanza è la presenza nell’atmosfera di sostanze i cui effetti sono misurabili sull’essere umano, oltre che sugli animali e sulla natura; il grado di presenza di tali sostanze nell’aria è normalmente, ovvero in assenza di immissioni causate dall’uomo, ad una concentrazione inferiore o inesistente.
Gli inquinanti sono classificati in due categorie principali: la prima, di origine antropica, ovvero prodotti dall’uomo, e quelli naturali.
L’inquinamento derivato dall’utilizzo di tali sostanze negli ambienti aperti viene definito esterno (o outdoor), mentre l’inquinamento negli spazi chiusi, es. gli edifici, è catalogato come interno o indoor. La qualità dell’aria negli ambienti confinati è definita come Indoor Air Quality.
Orbene, allo stato attuale della ricerca e della scienza, sono stati catalogate circa 3.000 sostanze contaminanti dell’aria, in maggioranza derivanti dall’attività umane mediante processi industriali, oltre che a causa dei mezzi di trasporto.
Le modalità di produzione dei vari inquinanti e la loro immissione nell’atmosfera sono variegate, ragion per cui oltre alla difficoltà di monitorarle, diventa estremamente difficoltoso prevederne le ricadute e le possibili soluzioni. Basti pensare che l’immissione di esse provoca una serie di malattie che vanno dalla semplice asma a complicazioni cardiocircolatorie.
Purtroppo, la notizia, sulla scià di questa breve ma necessaria digressione appare preoccupante! Non è solo un mero chiacchiericcio giornalistico, in quanto è la stessa EPA – ENVIRONMENTAL PROTECTION AGENCY, l’ente per la protezione ambientale, a vedere smentite e posticipate le nuove regole in tema di limiti di emissione.
L’intento riformatore sembra solo momentaneamente fermo a causa della lentezza con cui si dovrebbe operare in primis nel settore legislativo per ridurre e semplificare la selva legislativa che graverebbe come un ulteriore macigno sulle imprese; ma sopratutto per la scarsa propensione del sistema imprese americano, in netto ritardo sul fronte innovazione, per la circostanza non secondaria che se venissero approvati i famigerati limiti in materia di emissione rebus sic stantibus, si provocherebbe un’emmorraggia occupazionale ulteriore e una corsa alla delocalizzazione verso quei paesi in cui tutto è lecito e permesso in materia ambientale.
Eppure, è proprio questo il momento che richiederebbe coraggio ed incisività nel voltare pagina con il passato e di allinearsi a nazioni che su tale fronte sono ormai in vantaggio. Ma la preoccupazione di deprimere un’economia già ostaggio dei suoi stessi errori e fantasmi, rischia di bloccare e forse arenare, sotto la scusa della necessità di salvaguardare l’occupazione un radicale ripensamento del modo di produrre oltre che di un rimodulamento degli stili di vita, necessari quanto più improcastinabili nel declino del gigante americano.
Purtroppo, come se non bastasse tale decisione rischia di provocare anche un terremoto tra tutti quei sostenitori che erano stati la linfa della sua trionfante cavalcata, che avevano risvegliato milioni di sfiduciati americani dal torpore e dall’astensionismo elettorale. Si sentono traditi, utilizzati, e per il momento il loro sfogo si ferma a dichiarazioni.
Ma se non vedessero mutare i presupposti dell’azione di governo, quelle migliaia di cause ambientaliste ritirate in campagna elettorale (si ricordi John Walke a capo del Natural Resource Defense Council), potrebbero ritrovare vigore, e decretare la sicura non rielezione del profeta venuto da Chicago.
La luna di miele sta giungendo alla fine? Il banco di prova, sarà quasi certamente la decisione sulla costruzione del super-oleodotto che dovrebbe garantire l’approvigionamento di petrolio dal Canada fino al golfo del Messico. Se vincerà il si, le lobby avranno vinto la partita più difficile, con un ritorno non solo economico. Ad essere sconfitto sarà un movimento trasversale globale, e una prospettiva di vita.
La qualità dell’aria e il sogno di un mondo più pulito naufragheranno forse per sempre..
Resisti Barack!