“El verdadero viaje de descubrimiento no consiste en buscar nuevos caminos sino en tener nuevos ojos…” Marcel Proust

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Molto spesso, complice una crisi economica drammatica e schizzofrenica, un tessuto sociale dilaniato da contraddizioni ed ingiustizie, i ragazzi della mia generazione e di quella che si sta formando, vedono nella possibilità di andare all’estero sic et simpliciter una via di fuga dal triste e tetro presente, foriera di possibilità e benessere materiale.  

Nella maggior parte dei casi è davvero così, si abbandona una nazione ormai diventata poltiglia sociale, preda di tribuni della plebe, complottisti e trasformisti di professione, con il groppo in gola e un peso sulla coscienza, di chi avrebbe voluto fare, ma non ha potuto.

Altre volte, invece, si registra un certo “snobbismo intelletuale”, a tratti trasversale, di chi non ha voglia di sporcarsi le mani nel ricostruire o tentare di ridare dignità alla Nazione che per secoli è stata la culla delle arti e del sapere, in virtù di un titolo di studio conseguito e quindi legittimante una presunta superiorità.  

Tra queste due categorie, per fortuna ce ne è una terza, di coloro che vedono nel varcare i confini italici non solo un’opportunità materiale di migliorare le proprie condizioni materiali e di dare sfogo al proprio talento.

Altresì, colgono nel viaggio un’opportunità, di scoperta interiore mediante il confronto con l’altro, che la comoda routine quotidiana, inconsciamente frena o attutisce.

Insomma uno scandaglio calato al fondo del nostro io,  per comprenderci veramente mediante l’evasione nel mondo dei sensi, come suggeriva Baudelaire, in quello incontaminato e puro dell’immaginazione, dove il reale si fonde e si amalgama con la fantasia.

Però, mentre per gli appartenenti alla seconda categoria, il viaggio spesso è utilizzato solo per marcare e definire tutto il disagio nel vivere a contatto con una società in cui non ci  si riconosce, nella quale si fa fatica a sentirsi parte, per i “viaggiatori” della categoria mediana o terza, la ricerca di un altrove, di un’altra “ITACA”, è la molla a migliorarsi, a demolire le proprie convinzioni per ricostruirle con una malta ancora più dura.  

Ogni ricerca quindi è si un’evasione, ma spostando in avanti la meta, alzando l’asticella come chi salta in alto in una competizione. “Cambiare”quindi, non semplicisticamente abitare una nuova città, “migliorare”, non semplicisticamente come si sente dagli “esiliati” guadagnando uno stipendio discreto. “AVERE NUOVI OCCHI” come affermava Proust, leggere le sfumature e i significati più reconditi, spesso nascosti, altre volte presenti ma non comprensibili a causa dei registri interpretativi a cui siamo assuefatti.

Avere relazioni con gli altri è un fattore oltre che naturale essenziale: l’uomo è per definizione “zoon politikòn”, un animale Politico, che fa dello scambio di visuali e di esperienze il sale della vita e della democrazia. Prendiamo per intenderci un esempio ricorrente tra i terapeuti e immaginiamo quindi per un momento, di essere davanti a un quadro mai visto prima.

Sarà naturale che la nostra percezione è dapprima solo intellettuale, posto che il quadro vuol dire qualcosa, ‘significa’, ma esso è anche ‘oscuro’ criptico.  

Può essere contemporaneamente significativo e non-significativo, impressivo e riflessivo; così, come davanti a un quadro, il vero “viaggiatore” si trova nella condizione di chi deve abbandonare le proprie conoscenze  condizionate dalle categorie per poter accogliere l’esperienza del nuovo! Concludendo, la conoscenza vera, genuina e utile, di se stessi e del mondo, richiede umiltà, abbandono e/o messa in discussione delle certezze, migliorandoci  sia dall’interno sia nei rapporti con gli altri.

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La vita di ognuno di noi è un “cammino” quando si ha ben chiara la meta , o anche un “pellegrinaggio”,  quando invece le circostanze ci impediscono di trovare un saldo approdo.

Per dirla alla Baunmann, un incessante divenire, nel quale gli equilibri si fanno e disfanno, dove la liquidità è il tratto distintivo e caratterizzante.

In queste fasi intermedie, si colloca il viaggio, percepito come strumento di conoscenza. Solo chi lo interpreterà come opportunità di conoscimento avrà nuovi occhi… altrimenti il rischio è di naufragare nelle proprie debolezze e cattive convinzioni..


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Molti mesi fa, nell’imminenza delle elezioni Comunali frusinati, il candidato a Sindaco, Avvocato Nicola Ottaviani aveva più volte pubblicamente affermato di voler riportare legalità e trasparenza ad una amministrazione sconquassata da opacità, dissidi, e polemiche a non finire. «Neanche a Corleone succedono queste cose” – tuonò l’allora candidato a sindaco Nicola Ottaviani in merito al concorso per istruttore direttivo al COL- “si riparlerà dopo il voto, una volta insediata la nuova amministrazione», Peccato che il finale sia andato oltre ogni limite di immaginazione assumendo i caratteri di un grottesco reality.

 

Nel contempo, eletto Sindaco, si è svolto il concorso temporaneamente sospeso in campagna elettorale, e molti di quei giovani partecipanti che speravano in un clima migliore, si sono trovati a recitare la parte di comparse di un film tragicomico già scritto, per le modalità con cui si è svolto e per l’esito finale.

 

Ma l’amarezza non terminò con la conclusione del concorso: il Sindaco, in un primo momento si erse a paladino della trasparenza, in quanto su sollecitazione di ben cinque candidati che formalmente misero in luce nero su bianco le presunte irregolarità, prese l’impegno di avviare un’indagine interna, paventando la possibilità di annullamento in quanto invalido e senza copertura finanziaria. Intanto, spirarono i giorni, i mesi, e come la sibilla cumana, oscillante fra “il forse che si –forse che no”, mentre esplodeva il problema dedito pubblico frusinate, nel ben mezzo del dibattito in merito alla spending review, non fece nulla per dare risposte concrete.

 

O meglio, formalmente non fece nulla, perché mentre i ragazzi ogni giorno guardavano l’albo pretorio per avere delucidazioni, sostanzialmente, in spregio al concorso bandito che prevedeva l’assunzione “a tempo indeterminato”, decideva di convertirlo “a tempo determinato”, con l’aggravante che di tale delibera non si è rinvenuta traccia fino a quando deliberata la conversione, con un accesso agli atti un candidato insospettito ha fatto emergere la “mancanza” sull’albo pretorio di tale delibera, con conseguente impossibilita di ricorso per i partecipanti.

 

Ma il funambolismo del primo cittadino è degno di una commedia di Plauto, e  così dopo la conversione si ritorna al principio di realtà amministrativa: invero, con la recentissima delibera di Giunta n° 146 dell’8 aprile ha provveduto a rideterminare la pianta organica per sovrannumero dei dipendenti, in stridente contrasto però con quanto deliberato con la conversione, e soprattutto con quanto affermato sul quotidiano “il messaggero”di voler accedere al fondo salva comuni per l’esigenza di spalmare il debito dell’ente in 10 anni.

 

In questa vicenda il primo cittadino, come in una commedia di Plauto ha cambiato più volte maschera, da garante della legalità, a indecisa sibilla cumana, per terminare con la gattopardiana ed italica figura di “homo novus” che cambia tutto affinchè nulla cambi. Peccato che le conseguenze di questa vicenda siano: un aggravio ulteriore di spesa per l’ente, un concorso farsa, uno schiaffo alla trasparenza amministrativa e alle speranze dei giovani partecipanti al concorso.

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Recensione ad un racconto social fantasy di un mio caro amico disponibile su Amazon.it, intitolato “Call Center”.

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Call center non è solo come potrebbe apparire da una prima lettura un mirabile ed impegnato affresco sulla difficoltosa e nebulosa realtà del lavoro para-subordinato, ma  anche e soprattutto un viaggio “esperienziale” nelle zone d’ombra e meno focalizzate del nostro sistema economico –produttivo, che ne mette a nudo tutte le insidie, gli ingranaggi perversi, e le terrificanti scorie sociali.

L’autore di tale saggio, coniugando leggerezza narrativa ed impegno sociale,  tra spezzoni di poesia, incipit filosofici e richiami musicali di Gaber e Battiato, come un Dante Alighieri nella Divina Commedia, mediante un viaggio “esperenziale” fa emergere con abilità, senza mai essere prolisso, e banale, mai rischiando di scivolare nella retorica, un concetto ed un fenomeno poco studiato dai grandi media contemporanei: il non luogo di Marc Augè.

Si colgono altresì tratti orwelliani di “1984 e dalla fattoria degli animali” quando mette in luce che il lavoratore va “educato… il comportamento non può tendere alla neutralità o alla riflessione (dannosa in ambito produttivo), bensì a un energico entusiasmo decerebrante capace di far ottenere al lavoratore il tanto agognato premio finale.

Ebbene proprio l’apertura di tale viaggio inizia con un richiamo forte che descrive il binomio micidiale di spersonalizzazione e concreto bisogno che spinge il lavoratore para-subordinato a sottomettersi non solo fisicamente “Conosco bene le misure del mio spazio lavorativo: mi fermo un millimetro prima di strappare via il jack” ma soprattutto interiormente “ritorno fedele con le braccia sul tavolo del box dove mi aspettano i pieghevoli che illustrano le caratteristiche patinate dei meravigliosi prodotti da vendere e il decalogo delle cose da dire o da non dire pensati dall’intellighenzia aziendale.

Ma non solo alle distorsioni della realtà lavorativa si ferma la denuncia: infatti, percorrendo le stanze del non luogo, del call center, dal suo box n°103, il protagonista mette a nudo le fragilità e le contraddizioni di un finto benessere che poggia su basi di argilla quando afferma “Il sottobosco lavorativo offre una vastissima gamma di occupazioni surreali e facilmente sostituibili..l’assoluta mancanza di diritti e la facile reperibilità di cosiddette ‘risorse umane usa e getta’ rappresentano l’autentico propellente di quelle aziende che affidano la propria sopravvivenza a una delle carte vincenti della moderna economia: la precarietà del lavoratore.

Ma è proprio quando si ha l’impressione che la sfiducia e la solitudine esistenziale rappresentino necessari ed insormontabili ostacoli Siamo moscerini schiacciati sul parabrezza di un’economia veloce,” – penso in maniera disincantata – “e che nessuno mai rimpiangerà.”  che comincia la lenta risalita e la presa di coscienza. 

Da una forte disvelamento del proprio non essereè il lavoratore che, sopprimendo ogni forma di velleità individualista, deve sincronizzare la propria esistenza interiore e fisica con i tempi della Produzione…l’individuo è morto, il lavoratore trova la chiave di volta e la via d’uscita al suo disagio ed alla sua condanna.

Analizzando così i suoi“corsivi mentali” coglie quale sia il vero ed efficace strumento di difesa contro i“kapo imprenditoriali,…che attuano una costante azione di disturbo psicologico nei confronti di noi, piccoli ingranaggi in bilico tra il bisogno materiale e la mancanza di un sogno. Credono, così facendo, di spronarci, di aizzarci contro i consumatori indecisi e di renderci produttivi”.

Alla cieca devozione ai dogmi di un capitalismo freddo e malato si sostituisce la naturalezza e la spontaneità dell’essere umano troppo spesso sacrificate alle logiche del profitto, restituendo dignità e ragion d’essere all’errore “l’errore è la pausa dalla regola, la distrazione dal Piano, è l’aberrazione che sfida la Noia, è la fuga dello Spirito dall’impegno del Materialismo, è il fiore che spacca l’asfalto, è le “Tredici variazioni sul tema” di Jill Sprecher… È la

vita.

La liberazione dalle catene è quasi completa, il lavoratore a questo punto spacca volutamente e consapevolmente, e con lucidità le certezze e le falsità costruite ad hoc da un sistema egoista ed autoreferenziale, l’energia per la vera produttività non proviene dall’esterno, non può essere imposta, trasmessa per osmosi con micropompe terrorizzanti e lubrificate da minacce occupazionali”culminando quindi con un gesto che racchiude tutta la riflessione maturata“La filosofia del rematore di galea non attecchisce più sul mio cervello frustato e incatenato. Lo schiavo numero 103 abbandona i remi”.

Sembrerebbero risuonare in tale immagine echi del “l’elogio della fuga” di Henri Laborit, “quando non può lottare contro il vento e contro il mare per seguire la sua rotta, il veliero ha due possibilità: l’andatura di cappa che lo fa andare alla deriva, e la fuga davanti alla tempesta con il suo mare in poppa e un minimo di tela…”, ma non solo di fuga si ragiona.

Analizzando però le strutture del sistema con nettezza si fa emergere la contraddizione intrinseca e più drammatica del fenomeno: Il ‘mostro’ è la stupefacente rappresentazione materiale, terribile, esteriorizzata e a volte profetizzata, della superbia umana. Si ha paura del mostro e si combatte il mostro, ma in realtà abbiamo paura della nostra mostruosità e combattiamo i nostri errori”.

L’epilogo,  rappresentato dalla decisione  del protagonista di incendiare il luogo del non lavoro, con il suo carico di liberazione e speranza, è un “Fahrenheit 451” rovesciato: invero in tale scenario il fuoco assurge a simbolo di purificazione ed evoluzione, necessario male per sbloccare momentaneamente uno degli innumerevoli nodi di una filosofia di vita che si impone a sistema organizzatorio della società.

Adesso il protagonista è libero di riprogrammare le coordinate della propria meta!


Cronaca tragicomica di un podista-Martedì 21 agosto ore 8:30 centro sportivo Giuseppe Panico
….Per me si va ne la città dolente, per me si va ne l’etterno dolore, per me si va tra la perduta gente…

Come spesso accade a molti frequentatori e atleti che quotidianamente si allenano presso il complesso sportivo Giuseppe Panico(ex Trecce), dopo l’attesa per l’apertura dei box, nell’affacciarmi allo spogliatoio questo spezzone di Dante è riecheggiato con veemenza e rabbia ancora una volta nella mia mente.

Purtroppo stamane come da più di un mese a questa parte abbiamo costatato ancora lo stato di abbandono totale e il degrado in cui versa la struttura: spogliatoi che dopo essere stati aperti per un mese giorno e notte(!!!??), improvvisamente erano chiusi alle 8:30 orario di apertura, acqua oltre la normale tollerabilità del freddo, spogliatoi da pulire, insomma anarchia totale!!

Non è bastato lo sgradevole e imbarazzante episodio di qualche anno fa che ha visto vittima un campione inglese di salto in lungo, il quale nell’imminenza delle sue nozze ad Arpino e nella necessità di allenarsi per le Olimpiadi di Pechino, si vide costretto a scavalcare i cancelli per utilizzare la di struttura sportiva; nemmeno il gesto necessitato compiuto dal Sora Runners Club qualche mese addietro, di risistemare la sbarra delle siepi a terra da più di sei mesi ha risvegliato un minimo di sensibilità da parte di chi dovrebbe monitorare costantemente e provvedere almeno mensilmente al mantenimento delle strutture; è svanita nel vuoto anche la proposta sempre della stessa associazione anni or sono di autogestirsi un box o uno spazio del complesso Panico, caricandosi anche economicamente la relativa pulizia e connesso mantenimento; di recente, nemmeno il grido di dolore di un ragazzino dell’atletica Sora, ha avuto l’effetto di smuovere qualche coscienza: insomma non sono mai state nel corso degli anni accolte le più semplice proposte  avanzate da chi quegli spazi li vive con quotidianità e con rispetto, in confronto invece ad altri utilizzatori spesso privilegiati e poco rispettosi di essi.

Ci sentiamo come chi pratica altri sport ( meno popolari) figli di un Dio minore, con prospettive ancor più cupe. Mancano le più basilari conoscenze delle esigenze di chi pratica sport, manca qualunque programmazione a lungo termine, spesso manca anche qualcuno che recepisca le istanze ma che soprattutto le traduca in fatti concreti. Non bastano eventi pur di ampio respiro a carattere sportivo a lenire il dolore di sentirsi e vedersi l’ultima ruota traballante di un carro che deraglia sempre più.

Non vorrei un giorno che fossimo costretti o ad a emigrare verso altre città per praticare attività sportiva, o nella peggiore delle ipotesi a dover rinunciare a essa. Non chiediamo certo il “Paradiso”, né gli standards di Rieti o Formia.

 Solo buon senso.

La dirigenza del Sora Runners Club


Negli ultimi quindici anni, il procedimento di maturazione e formazione delle scelte pubbliche ha subito un vigoroso ed inarrestabile mutamento, sotto la duplice spinta di due fattori concomitanti e complementari: da un lato i naturali sviluppi storico-sociali, dall’altro l’affermarsi del ruolo delle tecnologie nella vita  pubblica e/o politica e quindi l’emergere della wikicrazia.

Da questa premessa si evince quindi che l’interazione classica dei componenti del famoso quadrato decisionale – P.A, opinione pubblica, gruppi di intermediazione, decisione politica – da cui promana la decisione in materia pubblica non è più unidirezionale, come le fasi che la precedono, ora arricchite da nuovi attori e modalità di tessitura dell’ordito decisionale

Si registra pertanto un ridimensionamento netto non del ruolo ma del peso della mediazione tecnica e politica tra le varie istanze dei gruppi di interesse, non più esclusivo filtro e concertatore di interessi contrapposti e spesso divergenti, in quanto tale funzione è erosa dall’affermarsi di corpi intermedi spesso non istituzionalizzati quali movimenti o semplici think tank, a cui il legislatore deve comunque dare risposte.

Il processo decisionale e  per tale via anche l’iter dei lavori, devono quindi alla luce di tali mutamenti confrontarsi con svariati interlocutori, dai media, agli influencer, al popolo di internet, alle organizzazioni non governative, agli enti locali, nonchè alle lobbyies.

L’arena decisionale non solo si amplia, ma diventa più complessa, competitiva. Una prima causa di tale evoluzione è rappresentata dalla “disintermediazione” della società, che ha causato in primis la moltiplicazione degli attori, sia dal punto di vista dei gruppi di interesse che chiedono di partecipare alla decisione, sia per quanto riguarda quelle maggioranze silenziose che svolgono un ruolo di guardiano mediante il controllo,  ma anche con il semplice suggerimento e la divulgazione delle informazioni.

Emerge così in maniera evidente la crisi di influenza del gruppo di interesse inteso in senso classico rispetto al passato, nonchè l’erosione e il ridimensionamento di del ruolo di mediatore e filtro delle istanze prima esclusivo appannaggio della politica. In questo spazio quindi si sono inserite organizzazioni o gruppi che hanno svolto attivamente un ruolo di difesa e in certi casi di promozione di interessi, anche ridisegnadone il perimetro: esse sono  ascrivibili e classificabili principalmente in due categorie, l’advocacy e il lobbying.

L’attività di “advocacy” consiste nello sviluppare una serie, coordinata e strategicamente funzionale di azioni di comunicazione per promuovere, consolidare o difendere un interesse – istituzionalmente rilevante–di un’organizzazione complessa. Garantendo così presso tutti i pubblici poteri di riferimento, direttamente o attraverso altri soggetti attivi del processo, un flusso informativo costante, congruente e favorevole al gruppo di interesse, si riesce ad accrescere la c.d. issue salience e ad aumentare la propria capacità di incidere sulle decisioni pubbliche.

Per «advocacy»  nello specifico si intendono indicare tutte quelle le organizzazioni che operano per la tutela e la promozione dei diritti, mutuando un vocabolo inglese – che letteralmente può essere tradotto con avvocatura, appoggio, patrocinio, arringa; il motivo della scelta di tale termine si giustifica con l’assenza di un sostantivo equivalente che indicasse l’insieme di azioni con cui un soggetto collettivo sostiene attivamente e fattivamente un interesse, in ambito giudiziario ma anche politico. Tuttavia, l’elemento più importante che lo differenzia nettamente dall’attività di lobbying sta non solo nella mission, con cui presenta punti di contatto, ma sopratutto nelle ricadute pratiche, posto che l’agere di soggetti collettivi, porta vantaggio anche a terzi che non necessariamente ne fanno parte.

Per quanto attiene alle modalità, l’advocacy si snoda con azioni di difesa e di promozione dei diritti collettivi, con maggior propensione per le fasce più deboli della popolazione, tramite il lavoro di associazioni e organizzazioni non governative (ONG).  Ne è una riprova di tale attitudine la circostanza squisitamente lessicale che gli spagnoli traducono il termine advocacy con incidencia o incidencia política,  sottolineando quindi la capacità di incidere sulla concreta attuazione delle politiche nazionali e anche internazionali , sia con l’esperimento di azioni a carattere preventivo – evitando le violazioni della legge e dei diritti – sia a carattere  reattivo-garantendo il rispetto dei diritti di coloro che ne sono privati.

Orbene, sulla scorta di quanto premesso può senza ombra di dubbio affermarsi che la pratica dell’advocacy si sostanzia in un concreto e per certi versi necessario corollario di cittadinanza attiva e responsabile, poichè permette a quei gruppi che subiscono o lamentano ingiustizia ed emarginazione di accedere al dibattito pubblico e porre in luce nei circuiti decisionali, tematiche ed interessi spesso relegati ai margini del dibattito politico.

Tuttavia, parallelamente a tale nobile attività si è evoluta ed affinata anche l’attività indirizzata al cambiamento politico,  mediante la pressione e l’orientamento delle decisioni degli attori istituzioanli, cioè  il lobbying; con tale vocabolo si indica l’azione sostenuta da determinati gruppi di interesse o pressione al fine di influenzare, contrastare o sostenere provvedimenti legislativi e normativi o specifiche politiche pubbliche (cfr TINTORI C., «Lobby», in Aggiornamenti Sociali, 4 [2009] 303-306). 

Ma tali termini anche se spesso utilizzati come sinonimi, rappresentano due fenomeni con profonde differenze pratiche e di fondo: invero, l’advocacy si sostanzia nella promozione e difesa di principi, mentre la mission del lobbying sta nell’esercitare pressione per promuovere e difendere interessi, prevalentemente di natura economica. Ragion per cui, l’elemento dirimente dell’azione di advocacy  da quella di Lobbying è assai spesso  nella disinteressata difesa di terzi esterni al soggetto promotore.

Un altro elemento di distinzione discende dal fatto che l’attività di lobbying è rivolta direttamente ai detentori del potere (membri del Governo, parlamentari, funzionari e dirigenti pubblici) e si propone di influenzarne le decisioni. L’advocacy, invece, ha uno spettro di azione più ampio e comprende l’insieme delle attività che permettono la difesa e la promozione di valori e diritti, con una spiccata attenzione per la sensibilizzazione e la mobilitazione dell’opinione pubblica, cioè per il mutamento culturale e la crescita della coscienza civile e sociale.  

In questo quadro si registra come spesso le evoluzioni sociali abbiano preceduto quelle istituzionali. All’emergere ed affermarsi di tali fenomeni purtroppo tranne che in alcuni casi, si sconta il ritardo ordinamentale a recepire tali mutamenti e a provvedere a ridisegnare l’architettura istituzionale. Purtroppo non governare tale fenomeno potrebbe avere due effetti deleteri per la credibilità del sistema sociale e per il corretto funzionamento del sistema democratico, per due ragioni: il primo rischio è rappresentato dal fatto che per accontentare sic et sempliciter tali gruppi di pressione si prendano decisioni si di matrice pubblica, ma con carattere e contenuto settoriale e particolaristico che cozzano con una mediazione e bilanciamento di interessi contrapposti che costituisce il sale della democrazia e il compito assegnato dal contratto sociale allo Stato. In secondo luogo, il rischio opposto, è quello di rinchiudersi nella torre di avorio da parte del potere politico, non ascoltando o incanalando tali attori, con conseguente frattura e sfiducia con la società.  

La metamorfosi è ormai in atto, il fenomeno è in espansione ed emerge icto oculi l’incapacità dell’attuale processo decisionale pubblico, lento, farraginoso, a tratti schizzofrenico, come le vicende economiche di questi mesi hanno messo a nudo, a prendere decisioni rapide ed efficaci; in sintesi si mostra inadatto a recepire e rappresentare le molteplici istanze che emergono da un substrato sociale sempre più variegato e complesso e a tradurle in decisioni concretamente efficaci. Queste sono quindi le incognite di un’equazione da cui dipenderà forse la qualità del futuro ordinamento sociale.